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Lèggi. Léggi. Semplici accenti, complesse differenze. Lèggi le léggi e scoprirai quanti privilegi celano, garantiscono o negano, quanto sia diversa la vita in base al paese in cui nasci e in base ai regolamenti vigenti. Ho raggiunto questa consapevolezza durante uno degli scambi europei a cui ho partecipato.
Sono arrivata in Germania, a Brema a fine agosto del 2018 per il progetto Culture. World. Us. Ero felicissima perché i dieci giorni del progetto sarebbero stati anche il mio momento per staccare dal lavoro, dallo studio, dal mio paese, dagli affetti e, perché no, dalla monotonia. Erano leggère le preoccupazioni che mi distraevano dal presente. Riuscirò a ricordare tutti i nomi dei partecipanti? Si creeranno dei bei legami? Riuscirò ad imparare qualcosa di nuovo sui diritti umani? In un attimo, arrivai. La struttura che ci accoglieva era stupenda, immersa nella pace di uno dei tanti boschi a pochi chilometri dal centro di Brema, un posto nuovissimo con stanze giganti e accoglienti. C’era già una ragazza nella camera che mi era stata assegnata, dormiva, “forse il viaggio è stato più lungo per lei”, pensai tra me e me. Si svegliò per i rumori e si presentò. “I’m M., nice to meet you”. “Nice to meet you too, sorry if I woke you up”, le dissi. Mi sembrava così quieta, composta ed educata.
Poi, la sera stessa iniziò quel magico percorso, uno dei più significativi per me, finora, di quelli che insegnano molto più degli anni accademici. Ci presentammo e ci annunciarono le attività: teatro, musica, workshop e una performance finale che sarebbe stata aperta agli abitanti di Brema. Le preoccupazioni, che iniziavano a crescere, erano tenute a bada dall’enorme quantità di entusiasmo e di gioia che avevo portato con me, oltre ad una divisa nera e alcuni giornali. Tutte le attività che facemmo giorno dopo giorno mi piacevano, soprattutto quelle legate al teatro e alla conoscenza del corpo e dello spazio circostante. Ma, senza che me ne accorgessi, si stava spianando la strada della consapevolezza di essere una ‘privilegiata’ per essere nata nella parte ‘giusta’ del mondo. Personalmente, ci avevo sempre dedicato molti pensieri ma conoscere il team della Cecenia mi ha praticamente cambiato la vita.
L’attività che mi colpì di più fu semplicissima ma di grande impatto: tutti i partecipanti dovevano allinearsi su una linea retta, fianco a fianco e guardare di fronte a loro – avevamo spazio vuoto avanti ma le organizzatrici si assicurarono che ne avessimo anche dietro – e avrebbero dovuto rispondere alle domande di una tutor; in caso di risposta affermativa, avrebbero dovuto fare un passo avanti, in caso di risposta negativa, un passo indietro. Mi sembrarono delle indicazioni facili e cercai, quindi, di capire l’utilità del gioco. L’insegnamento arrivò come uno tsunami. Tutte le domande riguardavano la nostra vita privata: se avessimo frequentato la scuola e corsi di formazione privati, se avessimo fatto qualche sport, se avessimo degli account sui social network, se avessimo una casa, se facessimo shopping o vestissimo sempre come volevamo, se avessimo mai usato delle armi, se fossimo mai stati perseguitati dalla polizia.
In base alle risposte alcuni procedettero in avanti, altri indietreggiarono. Ad un certo punto realizzai che non saremmo MAI più potuti essere allineati perché non tutti abbiamo la stessa fortuna e perché, pur senza volerlo qualcuno è più privilegiato a seconda del paese di provenienza. Ricordo che un ragazzo ceceno indietreggiò talmente tanto che andò a sbattere contro il muro. Lo spazio alle sue spalle era finito. Notai che lui, diciannovenne, avanzò solo quando ci chiesero se avevamo mai preso in mano delle armi; mi disse che nel suo paese la leva militare è obbligatoria. È una légge. Lèggi? E la mia compagna di stanza allora? Beh, M. è musulmana, per questo anche se indossava una gonna, la accompagnava sempre con dei leggings, per coprire le gambe. Dopo qualche giorno mi confidò che in realtà avrebbe voluto fare la modella ma la sua famiglia glielo impediva. Piansi tantissimo. Poi, avvenne la magia: il giorno della performance, alla quale avevamo lavorato tutti i giorni del progetto, ognuno riuscì a partecipare mettendosi in gioco, portando la propria individualità, sfidando i propri limiti, facendo quello che gli riusciva meglio e, soprattutto, sentendosi parte di un gruppo omogeneo: per un giorno, per qualche ora, eravamo riusciti ad essere tutti uguali, tutti giovani pieni di sogni e capaci di tutto. Io, in più, ebbi la possibilità di empatizzare anche con il pubblico, tramite il mio ruolo di “donatrice di abbracci”: dovevo rimanere immobile e chiunque si fosse presentato di fronte a me e avesse schiacciato simbolicamente il pulsante che avevo addosso, avrebbe ricevuto un abbraccio, simbolo per eccellenza, secondo me, dell’appiattimento delle differenze. Un abbraccio è per tutti! Non dimenticherò mai quel giorno in cui, magicamente e improvvisamente, per un attimo, scomparvero i privilegi e regnò solo la legge dell’uguaglianza.
by Michela